lunedì 7 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot: come rendermi felice.

Non ho mai nascosto di amare il cinema, mi piace e quando ho l'occasione vado volentieri a vedere un film in sala, soldi permettendo: di solito vado al cinema il mercoledì pomeriggio, la settimana dopo l'uscita di un dato film, perché c'è la riduzione.
Come sempre, ripeto che non sono un'esperta, non ho nessuna conoscenza a livello di critica cinematografica, non ho studi che vertono nel campo del cinema, sono solo una persona che ama il cinema e ama parlare. Ciò non toglie il fatto che io non sia una di quelle persone radical chic del cavolo che tendono a gettare fango su cose che non hanno mai visto e che conoscono solo per sentito dire: questo è un atteggiamento che non mi appartiene.

Non ci sono spoiler a livello di trama, questa volta sono riuscita a non farne; alle volte però parlo solo di alcune scene in particolare: mi occorre per soffermarmi su quello che voglio dire, ma non sono spoiler grossi della storia.

Mercoledì tre marzo sono andata a vedere Lo chiamavano Jeeg Robot, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti come regista, con Claudio Santamaria nei panni di Enzo Ceccotti, Luca Martinelli in quelli di Fabio Cannizzaro detto “Lo Zingaro” e Ilenia Pastorelli che interpreta Alessia.

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Il consiglio musicale: in realtà sarebbe più un imperativo. Ascoltate la cover di Santamaria, e magari ascoltatela anche quando vedete il film, ovvero restando ai titoli di coda.

Trama: la storia si svolge in una Roma vittima di attentati – si suppone a opera di alcuni estremisti stando alle informazioni dei mass media. Enzo Ceccotti, protagonista e ladruncolo di Tor Bella Monaca (un quartiere alla periferia della città eterna), si tuffa nel Tevere per sfuggire ai poliziotti che lo inseguivano a causa del furto di un orologio: così si apre il film.
Sott'acqua entra a contatto con delle sostanze radioattive nascoste sotto la battigia, acquisendo così dei poteri eccezionali come la super forza e una notevole resistenza. Da lì una serie di avventure lo porteranno ad avere contatti con Alessia, una giovane profondamente segnata da un precedente lutto, che pensa che Enzo sia Hiroshi Shiba, niente meno che il protagonista dell'anime per cui quest'ultima ha un'ossessione: Jeeg robot d'acciaio.
Sulla strada di Enzo (e anche di Alessia) si metterà davanti lo Zingaro, il capo di una “batteria” di delinquenti romani che nutre l'ambizione di fare il “grande salto” nel giro della delinquenza, per diventare così un esponente di spicco della malavita romana.

Lo sproloquio.

La prima cosa che vorrei dire è questa, giusto per essere chiara e per cercare di far capire se può essere un film gradito a chi mi legge: se si cerca un film di supereroi (un cinecomic) come quelli di casa Marvel, questo film non lo è affatto. Se pensate che durante i combattimenti usciranno le nuvolette con le onomatopee, siete sulla strada sbagliata.
Se si cerca la contrapposizione netta tra bene e male, allora non la trovate.
C'è ben altro e personalmente sono contenta che sia così, perché è un prodotto italiano che non scimmiotta affatto le produzioni d'oltreoceano, non risultando quindi né una parodia, né un calco, né un qualcosa di malriuscito.

I rimandi ad altre opere non scadono nemmeno nel citazionismo o nell'autoreferenzialità a un genere solo. Si unisce l'azione alla commedia, il dramma, il sentimento e non mancano gli spunti di riflessione che si possono fare con questo film.

Il tributo a Jeeg Robot di Gō Nagai è ovviamente presente e vivo, ma come dice il titolo stesso, qui non abbiamo il Jeeg Robot di partenza, visto che qui è un antieroe a esser chiamato così.
Se dovessi fare un riferimento fumettistico, l'atmosfera cupa e nera che permea nel film è più riconducibile alle ambientazioni dei fumetti della DC, anziché quelli Marvel, che spesso sono più noti al grande pubblico (almeno così pare a me). Non per nulla l'attentato allo stadio Olimpico mi è sembrato una ripresa dell'attentato allo stadio in The dark knight rises (e forse non è un caso, visto che Claudio Santamaria ha doppiato Christian Bale nei panni di Batman nella trilogia del Cavaliere Oscuro).

Il nero è quasi il padrone assoluto di quel mondo che vediamo sullo schermo, le tinte fosche – contornate da una certa malinconia – sono ben tratteggiate, e sono anche il trait d'union anche della vita dei personaggi stessi. Il nero tinge la periferia e la borgata quindi non risulta essere solo il luogo adatto per far sviluppare le azioni dei protagonisti, ma riesce a essere parte integrante, se non essenziale, sia per la trama stessa sia per l'atmosfera di tutta la storia. L'ambiente si mescola persino ai personaggi, il cui background ci permette di capire perché sono caratterizzati a quella maniera.
Anche le copertine giocano con quest'effetto: se notate quella che ho messo prima vi accorgerete che ricorda molto quella di Sin city.

Il dialetto romanesco è ben inserito nel contesto e per certi versi questa produzione strizza l'occhio sia a Romanzo criminale sia a Gomorra: se vi è un'ispirazione a esse, non si ha comunque nessuna fotocopia. Visto che il tutto si svolge in una periferia, dove la delinquenza e il degrado la fanno da padroni e i personaggi sono legati alla malavita capitolina, non credo avrebbe molto senso farli parlare in un italiano privo di cadenza e magari anche di dissertazioni filosofiche, si perderebbe credibilità e verosimiglianza. La società viene dipinta anche dai dettagli, come il linguaggio.
Mainetti ha usato come ambientazione una Roma moderna, che ricorda quella degli anni di piombo; abbiamo Roma messa a ferro e fuoco da continue bombe, che hanno reso la città stessa e i cittadini paurosi, terrorizzati. Questo stesso clima di terrore lo avvertiamo anche nella nostra realtà, soprattutto dopo i recenti attentati terroristici a noi noti (con l'aggiunta del fatto che si suppone che proprio Roma possa essere una delle prossime “vittime”): ecco dunque come Roma stessa sia diventata una città che ha bisogno del suo eroe, che possa salvarla.

Il voler inserire rimandi ai problemi contemporanei rende la storia non solo più interessante, ma anche più verosimile; parlando di situazioni che potrebbero accadere lo spettatore riesce anche a sentirsi più coinvolto, non rischiando quindi di essere un film di nicchia che può piacere solo ai cultori di questo o di quell'altro genere.

Ammetto candidamente di essere una persona che tendenzialmente apprezza i buoni (nelle opere in generale) e voglio dire che sono molto contenta di aver visto un cattivo che mi ha convinta e conquistata, era da tanto che non vedevo un cattivo così ben fatto.

Lo Zingaro è un uomo animato dal desiderio di rivalsa, un uomo che si è stancato delle misere condizioni in cui annega la sua esistenza e che non esita a fare il passo più lungo della gamba pur di riuscire, non curandosi delle persone che gli stanno accanto: si è proclamato come “capo” della sua banda e agisce come se avesse sempre potere decisionale su tutto.
È un uomo che vuole essere riconosciuto e rispettato, sentendo un senso di inferiorità rispetto alla società che non lo considera; l'ossessione per riuscire a diventare qualcuno nel suo ambiente lo rende cieco, ma non per questo poco realistico. Ricorda il Joker delle pagine di Brian Azzarello, e nella sua follia anche Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti (la scena in cui lo Zingaro si trucca come Robert Smith dei The Cure), ma non solo loro. Sembra che egli stia quasi sempre sul punto di ridere: la sua bramosia di successo lo ha reso a dir poco folle, come uno psicopatico che crede di potersi arrogare il diritto di vita e di morte sulle persone che gli stanno intorno, e la resa su schermo è ottima, la caratterizzazione è spettacolare.

La sua ambizione mi ha anche ricordato molto “il Libanese” di Romanzo Criminale, con cui condivide anche l'impulsività, mentre, per associazione, Enzo mi ha ricordato “il Freddo”: dal carattere divergente, ma entrambi dei disgraziati, e questa volta non alleati, bensì nemici. È il villain per eccellenza, nemesi del protagonista, con cui ha anche qualcosa in comune, mentre sono le scelte fatte che li rendono poi diversi. Queste affinità sono ben mostrate graficamente in questo character poster, dove abbiamo proprio lo Zingaro che tiene in mano una mannaia sulla cui lama appare la figura di Enzo.

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Lo Zingaro èanche figlio del suo tempo e del contesto sociale nel quale si trova a vivere: è “affamato di fama”, e non disdegna i primi piani in televisione o di essere visualizzato su Youtube quando esegue a sangue freddo una mattanza contro il clan dei camorristi che si era inimicato.
Se Fabio ha partecipato da giovane come cantante a Buona Domenica, ottenendo anche un discreto successo, adesso lo Zingaro vuole farsi strada sui social e sulle piattaforme virtuali, perché sono questi i canali che permettono notorietà nel nostro presente. Questa contestualizzazione l'ho particolarmente apprezzata perché al giorno d'oggi non è infrequente vedere persone che girano video amatoriali in cui fanno sfoggio gratuito della loro crudeltà e cattiveria facendo del male agli altri. Vuole essere visto e non si fermerà fino a quando i suoi obiettivi non saranno raggiunti, anche compiendo azioni cattive e molto violente, solo per essere ricordato.

Mi è piaciuto anche molto il dare allo Zingaro la particolarità di essere un cultore della musica degli anni Ottanta, anche nei gesti come la giacca di lustrini e il torso nudo; la buona caratterizzazione che rende bello un personaggio passa anche per i dettagli, che sanno dare il giusto realismo.

Luca Marinelli poi è stato davvero molto bravo: ha saputo rendere molto bene sullo schermo un personaggio dalle tante sfaccettature, con la sua certa dose di carisma, cattiveria, ossessione e di delirio di grandezza. Lui per me era stata l'unica nota di merito nella trasposizione cinematografica de La solitudine dei numeri primi, ero stata tanto colpita da lui nei panni di Cesare (con cui lo Zingaro ha in comune il desiderio di rivalsa, in aggiunta) in Non essere cattivo e qui si conferma nuovamente come un attore davvero in gamba.

La mano tesa a Quentin Tarantino con la scena del mignolo mozzato a Enzo (e che ormai è in necrosi, contrariamente alle aspettative di Enzo stesso che pensava di riattaccarselo) da parte dello Zingaro che poi cade a terra mi ha colpita in positivo: perfettamente inserita nel contesto come reazione dello Zingaro e come possibile gesto in un combattimento tra delinquenti.
Quel dito potrebbe essere ritrovato da un certo Jeffery Beaumont, chissà, mi fa sorridere l'idea, perché la mia mente è subito andata a Velluto Blu di David Lynch.
Si hanno anche il macabro e la violenza, specie quella gratuita dello Zingaro, a differenza di quella di Enzo: quest'ultimo si è sempre limitato a delle scazzottate, senza cercare di uccidere il prossimo, il primo no.
L'italianità del film – senza essere macchiettistica o patetica – è da ricercare oltre nel film anche negli episodi di uccisioni: quando i camorristi sono lì per lì per uccidere lo Zingaro mentre gli mettono in bocca una mozzarella di bufala – prodotto campano per eccellenza – ecco vedere il sangue sulla mozzarella. Il tutto non risulta stupido, bensì perfettamente inserito nel contesto.

Cosa dire, a questo punto, di Enzo?
Egli è, per dirla in breve, un supereroe “coatto”, un uomo grosso come un orso (Santamaria ha preso anche peso per poterlo interpretare fisicamente), oltre che burbero e scontroso. Sempre solo, quando lo si vede sulla scena è greve, cammina a passi lenti e pesanti, come se la sua esistenza fosse un macigno che gli reca tristezza. Sembra che l'unica dolcezza che trova sia quella dei budini alla vaniglia – mangiati in quantità industriale – che sono l'unico pasto della sua dieta e la “gioia” gli deriva dai film porno di cui sembra fare collezione. Conduce una vita apatica, apparentemente prima di emozioni, dalle azioni meccaniche – e sempre le stesse – da cui comunque non pare trarre piacere, né dalla vita né da ciò che fa, un poco come il Léon di Luc Besson (con tutta la differenza del caso).

Nelle scene in cui si ha solo Enzo, la lentezza delle scene girate sono perfettamente in linea con il personaggio, come se egli vivesse una situazione di stallo di cui anche lui – per rassegnazione o forse no – sa che tutto resterà così come è sempre stato, senza alcuna possibilità di cambiamento, lasciandosi intrappolare ancora di più dalle spire della negatività e dell'indifferenza verso il mondo esterno e gli altri che gli appartengono sin dalla prima scena, quando conosciamo per la prima volta il protagonista.
È laconico e preferisce stare sulle sue, ma i silenzi riescono a dire tanto di lui: è un ladro di periferia che non ha mai fatto il salto, e non appena si ritrova con dei poteri, ecco che li usa per sistemarsi, per riuscire a star meglio.

Quando tira un bancomat per prendere i soldi non ha affatto agito come un supereroe – come quelli a noi noti – dato egoisticamente ha pensato solo a se stesso.
Senza nascondersi dietro un velo di buonismo, ecco cosa ho pensato: chi non lo avrebbe fatto al posto suo? Aveva trovato il modo per arricchirsi, continuando con la delinquenza, dato che probabilmente era l'unica cosa che sapeva fare, perché non riesce a vedere nessun altro modo per vivere.

L'ambiente in cui vive pare rappresentare il suo mondo interiore: lo sporco e il degrado di casa sua può essere visto come l'immagine della sua anima macchiata dal crimine e dalla corruzione. L'incuria verso la sua casa è sintomo della sua indifferenza anche verso la sua stessa vita, i cui giorni sembrano passare tutti uguali, senza che nulla possa cambiare, almeno secondo lui. Laddove lo Zingaro abbellisce i suoi ambienti (perché vuole cambiare vita, con tutto ciò che ne consegue se cambia anche la qualità della stessa), Enzo non lo fa, ma il cambiamento arriva quando giunge Alessia.

Alessia è una giovane adulta che possiede l'innocenza tipica dei bambini, Ilenia Pastorelli col suo accento verace riesce a rendere una “bambina cresciuta” che vive in periferia e che si è creata un mondo tutto suo per sfuggire alle brutture del mondo, a partire da quello più vicino a lei, ovvero quello del suo ambiente familiare.
Anche Enzo si crea un mondo tutto suo, ma è più disilluso, un mondo tetro e cinico; questo però non toglie che il nero della sua vita inizi a diradarsi non appena ha a che fare con Alessia.
Il suo essere al contempo sì infantile, ma anche convinta che aiutare gli altri sia sempre la cosa giusta da fare, scuote Enzo (che non è affatto immune al fascino femminile), che non riesce a restare indifferente alla sua purezza e bontà.

Per quanto coi suoi modi di fare cerca di respingere la giovane, magari provando ad aprirle gli occhi sul degrado e sulla cattiveria del mondo in cui Alessia vive, Enzo fallisce in questa “impresa”, e si lascia trascinare da lei, lasciando intuire a se stesso che c'è del buono in lui. Se lo spettatore lo immaginava sin dall'inizio – perché si suppone che il supereroe sia buono – Enzo capisce piano piano che la bontà albergava in lui, si ha un'evoluzione del personaggio graduale, non repentina, e questo è degno di nota.

Enzo dunque si ritrova a essere un supereroe suo malgrado, e per quanto gli risulta possibile, con i mezzi che gli sono propri, cerca di impedire che lo Zingaro riesca nella sua folle impresa. Continua sempre a essere di poche parole, ma quando racconta ad Alessia della sua gioventù a Tor Bella Monaca, ecco che si ha un dialogo incisivo e al contempo umano, che rivela che c'è davvero dell'umanità in lui, anche se non voleva farla trasparire.

L'evoluzione di Enzo si rivela anche sul profilo sentimentale. Lui ammette di “non saperci fare con le donne”; ma la tenerezza di Alessia lo scuote e anche lei a sua volta prova qualcosa per lui.
Si avvicinano sempre di più e lei gli confessa di aver subìto degli abusi ripetuti nel tempo e la sua innocenza e la sua purezza appaiono intoccati da Enzo che, nonostante tutto, agli occhi di Alessia resta il suo “salvatore”.

Il desiderio della ragazza di volere un vestito da principessa rivela ancora di più il candore di un'anima che nonostante tutto riesce a essere ancora lieta, a modo suo, ed è emblematico il modo in cui Alessia si rivolge poi a Enzo dopo che sono andati in un centro commerciale: è sì innocente, ma il suo passato la perseguita e questo la fa aggrappare ancora di più al mondo di fantasia che si è costruita.
Da qui si capisce che l'“assalitore del bancomat” ha dei sentimenti e vuole provare a concretizzare qualcosa.

Alessia è la luce che riesce a rarefare le ombre dell'animo di Enzo e questo si vede anche dal riflesso del suo spirito ovvero la casa di Enzo stesso: da quando c'è Alessia il tutto appare un poco più vivo, colorato, anche grazie all'acquisto della serie animata di Jeeg.

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Seguendo la storia ci sono dei momenti in cui sale anche l'ansia perché sai che di lì a breve succederà qualcosa, magari anche negativa: sai che succederà ed ecco che sale la tensione e per quanto lo si possa aver intuito ecco che quando accade non puoi comunque far a meno di esser stupito e di esclamare minimo un “oddio”. Il crescendo di emozioni è incisivo e le inquadrature usate per le scene d'azione sono efficaci, pare proprio di essere lì sulla scena ad assistere alle mazzate in diretta.

Le musiche (vi ho messo il link dell'album colonna sonora su Spotify) sono molto suggestive e sono in linea con l'avvenimento proposto sulla scena, riflettendo anche l'atmosfera generale della pellicola.
Enzo non ha un costume come tutti gli altri supereroi classici, e questa cosa mi è particolarmente piaciuta: non ha voluto essere un eroe e se dapprima vestiva di scuro continuando con la delinquenza, come mostrato nel suo character poster, ecco che poi indossa i colori della maschera fattagli da Alessia, che gli ha illuminato la vita.

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Cosa poter dire di più? Sono davvero molto contenta che finalmente in Italia sia stato prodotto qualcosa di bello, un film che non sia una ripresa sia a livello di ambientazione sia di contenuti a cose e luoghi a noi lontani o sconosciuti o noti soltanto grazie all'informazione globale.
Mainetti ci ha dimostrato come si possa rendere un supereroe italiano senza dargli un tono caricaturale oppure del tutto estraneo al contesto della nostra penisola.

La trama incalza, non vi sono buchi all'interno della narrazione, che risulta quindi chiara, precisa, con rimandi ed elogi sentiti, ma che non hanno alcun effetto discordante. Quello che era stato iniziato con i cortometraggi Basette e Tiger Boy, adesso con Lo chiamavano Jeeg Robot Mainetti ci regala un supereroe tutto nostro, per il quale parteggiare, che ci mostra che anche l'Italia può avere il suo eroe, per nulla lontano dalla vita vera.

Sono felice di averlo visto e, se avete l'occasione, andate a vederlo al cinema. Ne vale la pena.

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