venerdì 12 febbraio 2016

"Fantozzi", recensione libro.

Era da tanto che desideravo parlare di questo libro, probabilmente perché la visione dei film ha segnato la mia adolescenza, rendendomi la persona che sono oggi, nel bene e nel male, è il caso di dirlo.

Non credo ci sia molto da dire per una presentazione, il titolo parla da sé. Tutti probabilmente, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito parlare del ragionier Ugo Fantozzi.

Quello che probabilmente molti non sanno, è che vi sono i libri sul nostro Ugo, scritti proprio dall'attore che lo ha interpretato successivamente sul grande schermo: Paolo Villaggio.

L'autore: Paolo Villaggio (nato a Genova il 30 dicembre 1932) è un attore, scrittore e sceneggiatore italiano, che ha ricevuto il Leone d'oro alla carriera, risultando tuttora l'unico attore comico a esser stato insignito del riconoscimento.
Ha lavorato con Federico Fellini, Marco Ferreri, Lina Wertmüller, Ermanno Olmi e Mario Monicelli, per citare alcuni mostri sacri del cinema e ha creato alcuni personaggi comici come Giandomenico Fracchia e il professor Kranz oltre a Fantozzi, di cui indosserà i panni in dieci film.
Oltre a Fantozzi, Il secondo tragico libro di Fantozzi, Le lettere di Fantozzi, Fantozzi contro tutti, Fantozzi subisce ancora, Fantozzi totale, ha scritto altri libri comici, umoristici anche sotto forma di saggi tra cui Come farsi una cultura mostruosa, Lei non sa chi eravamo noi, La vera storia di Carlo Martello, Storia di donne straordinarie, Giudizio universale.

La trama: in questo primo volume di racconti conosciamo Ugo Fantozzi, la sua famiglia, il suo lavoro, le persone con cui interagisce e le sue famosissime disavventure. Come ho già detto, non ha senso dire più volte l'ovvio.

La recensione: ciò che mi preme sottolineare sin da subito è che, anche qui, come quando ho parlato di Faletti, potrebbe saltare fuori la questione “ecco un altro dello spettacolo che vuole fare lo scrittore”, ragion per cui lo si può stroncare senza aver letto nulla di suo, un poco come si sta facendo in questi giorni parlando del nuovo film di Checco Zalone (e state pur certi che ne parlerò, appena avrò occasione; sarà un discorso ben ragionato) senza averlo visto, ma dicendo che è uno schifo perché sputare merda su un qualcosa di ignoto è chic come lo è anche paragonare film diversi, vedasi Il risveglio della Forza, tanto per restare nell'attuale e tanto per mettere i puntini sulle “i”.

Ebbene, non troverete mai la sottoscritta che condanna qualcosa se non lo ha letto o visto; penso sia bene rimarcarlo, non si sa mai.

Questo primo libro delle tragicomiche avventure di Fantozzi ci colloca direttamente nella vicenda, e ciò che accade viene descritto in modo semplice, chiaro, ma dal buon impatto associativo e che permette di immaginare chiaramente la situazione.

L'idea nacque dai monologhi di Fantozzi che Villaggio pubblicava su L'Europeo e col tempo il personaggio stesso ha assunto connotati più definiti, precisi, come per esempio le sue caratteristiche più note che dapprima erano vaghe; successivamente saranno anche delineati anche tutti i personaggi che accompagneranno il protagonista. 

Avete presente i film? Il libro è strutturato proprio come se non chiedesse altro di essere sceneggiato. Gli episodi non sono più lunghi di alcune pagine, concepiti come una sorta di sketch comici su carta, la cui brevità è essenziale, per non annoiare il lettore, ma che se letti tutti uno dopo l'altro hanno una loro continuità.

Alcune – non tutte, precisiamo – scene comiche lo sono già di loro per via dell'effetto caricaturale dato dalle espressioni che sconfinano nell'assurdo, e sono proprio le stesse che ritroviamo nei film, corredate anche di quelle esatte battute.
Non nascondo di aver ulteriormente riso perché immaginavo, nel leggere quelle parole, di udirle proprio con la stessa voce e intonazione del Fantozzi a noi noto su schermo.

Stessa cosa per le descrizioni, sono ridotte all'essenziale, ma al tempo stesso precise quanto basta per farti figurare la scena, l'avvenimento, i dettagli... per poi ridere.

Lo stile adoperato è molto semplice, alla lettura salta all'occhio la struttura “soggetto, predicato e complemento”, le frasi sono quasi tutte coordinate, la subordinazione è pressoché assente e vengono usati termini di facile comprensione. Trattandosi comunque di un ragioniere, si adopera anche il registro impiegatizio e di tanto in tanto alcune parole molto più specifiche che sono comunque corrette nel contesto, ma sembra il latinorum di Don Abbondio per Renzo (per esempio “metodo montessoriano”): è uno dei modi adottati per suscitare il riso.

Se ve lo state chiedendo: sì, anche nel libro crollano tutti sui verbi. Ci sono i famosi congiuntivi passati alla storia e oggi utilizzati proprio come intercalari o citazioni come il “venghi”, “dichi” o “vadi, vadi!”.

Degna di nota è la prima che cosa che Fantozzi – anzi, proprio Paolo Villaggio – ci insegna nella premessa, sin dalla prima pagina, ovvero quello di essere leccaculo coi potenti o, per meglio dirlo con parole sue: vischiosi, servili e sempre d'accordo anche su posizioni “fasciste”.

Il potente che vessa Fantozzi – e con lui tutti i poveri lavoratori come Ugo – è un'astrazione kafkiana, il simbolo di qualcuno o qualcosa che non difenderà mai abbastanza le persone che sono a lui sottoposte, con la conseguenza che Fantozzi stesso vive in una struttura-società che non ha bisogno di lui: riesce a capirlo, lo riconosce e ne ha paura.
L'intento del libro non è solo quello di strappare una risata, dunque, e ne parlerò più in là.

Le vicende sono narrate in terza persona, la voce narrante è quella di Paolo Villaggio che non nasconde di essere, tra quelle righe, il titolare dell'azienda.
Le storie del tristemente noto Fantozzi ci sono presentate nientemeno che dal mega direttore galattico in persona, quell'entità che ci è sempre stata ignota nelle trasposizioni cinematografiche. Viene detto molto chiaramente e si nota come una voce esterna riesce a essere praticamente asettica nel raccontare ciò che accade senza il minimo coinvolgimento emotivo, cosa che non avremmo mai avuto se la voce narrante fosse stata quella del buon Ugo, o magari sua moglie. 

La “comicità” dunque è data dalla vicenda unita al linguaggio, ma il narratore è del tutto esterno ai fatti e non prova né pietà né simpatia per Fantozzi.

La serie di racconti davvero brevi appaiono sì come degli sketch comici che sì vogliono suscitare ilarità, ma al contempo offrono spunti di riflessione, se ci si sofferma un ulteriore istante. Si parla con ironia anche dei vizi e delle virtù degli italiani, mescolando così comicità e umorismo, con un tono anche molto pungente, oltre che cinico.

È palese anche il voler giocare su dei luoghi comuni iperbolizzati come il notare cento giapponesi in un metro quadro di spazio. Fantozzi capisce che non è Tokyo a essere una grande città, ma che i giapponesi sono piccoli al punto tale da essere stipati come sardine in poco spazio.

Se pensiamo a Fantozzi e Fracchia (appare anche lui in questo primo libro per poi venire del tutto assimilato nel personaggio di Filini, l'organizzatore di eventi, un PR con gli occhiali che sono dei fondi di bottiglia) che fanno sport con gli scarponi della Prima Guerra Mondiale, giacca da prima comunione, pantaloni ascellari... vengono subito alla mente le immagini dei personaggi, come sono stati rappresentati nei film e ridi, almeno per un po', perché poi si può pensare a quanto doveva essere difficile il voler compiacere il capo appoggiando le sue idee strampalate come la partita di calcetto (e a te viene il fiatone dopo aver dato solo un calcio al pallone), la scampagnata in montagna e così via.

Certamente ricorderete la signorina Silvani – a tal proposito, potete sentire Villaggio e Anna Mazzamauro in veste di doppiatori in Senti chi parla 2, con risvolti davvero esilaranti – che, a quanto pareva, era molto più bella e affascinante della signora Pina (ormai è un topos ricordarla con la definizione “dai capelli color topo”), ma nel libro... tanto bella rispetto a Pina non mi è sembrata proprio.

A quanto pare al ragionier Fantocci – mai chiamato così nel libro – intrigava di più il fatto che fosse dodici anni più giovane di lui. 

Intanto Pina viene ritratta come una donna che si beve ogni balla raccontata dal marito, certo... credeteci, e io sono bionda platino.

Può capitare di ridere di tutti i tentativi di approccio falliti di Fantozzi, ma arriva anche il momento in cui inizi a pensare che tutto ciò è molto triste se una persona è così insoddisfatta di sé e della propria vita.
Perché mi sto fissando a parlare dell'umorismo? È presto detto.

Fantozzi è il grande “perditore” indistruttibile.
Fracchia (interpretato sempre da Villaggio nei vari film in cui compare, che sono slegati dalla saga fantozziana) è timido, sfortunato, goffo e servile, come Ugo, con la differenza che è celibe e nacque proprio come “compagno di sventura” di Fantozzi.

All'inizio, se noterete, nel libro si ha Fracchia che, incarnando la quintessenza dell'inetto totale, è davvero remissivo e sottomesso al suo scarognato destino.
Fantozzi – quello dei primi film e delle prime scene del libro – non lo era poi tanto, in lui si vedeva un'ombra di intraprendenza: appariva di rado, ma era presente.
Si giunse poi a unire Fracchia con Fantozzi, che divenne l'uomo con la tara incancellabile, nemmeno se fosse il protagonista di una tragedia greca o del francese Racine, con la differenza che rispetto agli eroi tragici Fantozzi è un vigliacco, e pare essere psicologicamente masochista dato che si fa mettere i piedi in testa da tutti.

È il prototipo dell'uomo medio italiano, di estrazione piccolo-borghese, vessato dalla società che comunque cerca riscatto, non riuscendoci data la sua inerzia di fronte al destino; il personaggio risulta sia comico sia tragico e non è capace di raggiungere un'armonia dentro e fuori di sé, con gli altri.
Ne esce fuori il ritratto di un piccolo "uomo senza qualità", mediocre travet, sempre oppresso dai suoi superiori e assolutamente incapace di vivere in armonia con sé e con gli altri. Secondo le parole del critico cinematografico Paolo Mereghetti: “Fantozzi, come la maggioranza dell'umanità, non ha talento. E lo sa. Non si batte per vincere né per perdere ma per sopravvivere. E questo gli permette di essere indistruttibile. La gente lo vede, ci si riconosce, ne ride, si sente meglio e continua a comportarsi come Fantozzi”.

Il libro illustra in maniera ancor più chiara la natura del protagonista: Fantozzi è un personaggio debole. La sua debolezza consapevole lo rende servile, sempre terrorizzato dai suoi superiori, mentre essendo timido e impacciato fino al catastrofico, non ha modo di avere degli slanci intraprendenti.
Si presenta quindi come vittima naturale dei mass media, del consumismo e della pubblicità televisiva, tragicamente incapace di adeguarsi ai modelli sociali che mitizza quotidianamente.

Insomma, il povero Ugo potreste trovarlo in studio dalla D'Urso che, con il suo pianto facile, fa ulteriormente commuovere sulle disgrazie del poveraccio, ma alla fine una soluzione ai problemi della vita non si trovano ugualmente. Si è sempre allo stesso punto, non c'è mai un piccolo progresso.

Avremmo anche i novantadue minuti di applausi dopo aver visto “La corazzata Kotiomkin”, la famosa cagata pazzesca: è una delle pochissime occasione di rivalsa. Sono però troppo poche perché si possa anche solo pensare che Fantozzi stia facendo un passo avanti.

Alle volte, raramente, ci sono dei momenti di tenerezza tra Pina e lo scimpanzé ovvero Mariangela, che i coniugi, così come dovrebbe essere per tutti, pensano che sia la creatura più splendida del mondo.

Da alcuni anni, il personaggio di Fantozzi è stato accostato da numerosi sociologi, tra cui Domenico De Masi, a casi di cronaca relativi al mobbing, che non è soltanto la vessazione psicologica da parte del datore di lavoro, ma anche da parte dei colleghi. Lui è stato l'esempio ante litteram.

Fantozzi, grazie alla popolarità che ha acquisito col tempo, è diventato un vero e proprio cult; basta solo pensare al fatto che è stato inventato l'aggettivo “fantozziano” che come dice lo Zingarelli può significare: “persona che ricorda i modi goffi e impacciati del ragionier Fantozzi” o anche di “vicenda o situazione fantozziana”, vista come sinonimo di “tragicomica” o “grottesca”.

Lo consiglio se si vuole fare un tuffo in uno specchio dell'Italia del passato che ancora oggi sente di avere la “nuvoletta da impiegato” su di sé.

Mi rendo conto che Fantozzi può piacere come può non piacere, però trovo doveroso riconoscere il merito di come abbia dipinto la società del tempo.

La ragione discordante di un eventuale gradimento della serie è perché al di là della risata, non si può far a meno di parteggiare per Ugo, per le sue disavventure, quindi assieme al riso è inevitabile la comprensione e la compassione nei suoi confronti, se si è dotati di empatia e di spirito di riflessione.

A tal proposito, voglio fare una piccola digressione, citando Bergson e Pirandello.

Bergson nel suo Il riso. Saggio sul significato del comico affermava che per ridere, il riso e la comicità si avvalgono del sentimento di temporanea insensibilità che alberga in noi quando ridiamo, ovvero si ha una temporanea sospensione del giudizio e della nostra solita adesione emotiva che ci permette per un attimo di assistere come spettatori indifferenti e non coinvolti quindi leggere/vedere una vicenda comica ci porta a ridere perché per un istante siamo a distanza da ciò che accade, una sorta di estranei, che si rallegrano di ciò a cui assistono perché questa distanza di sicurezza ci fa alleggerire i timori.

Pirandello asseriva che con l'avvertimento e sentimento del contrario l'ilarità deriva dall'avvenimento che osserviamo, lo troviamo comico e si inizia a ridere, ma subito dopo sopraggiunge l'umorismo che porta a riflettere su quello che abbiamo visto in precedenza, quindi dapprima si ride e poi si comincia a pensare.

Pur vivendo in un mondo che mostra volentieri il suo volto surreale in situazioni e personaggi spinti leggermente al limite dell'inverosimile, la sua vita e il contesto che lo circonda ricorda davvero quello della classe impiegatizia che dagli anni Settanta agli anni Novanta ha lavorato in aziende grandi e alienanti, sommando nelle loro vite grame condizioni economiche e vaghe aspirazioni spesso fallimentari per avere il famoso “qualcosa in più” per vivere in condizioni più agiate.

Tantissime famiglie italiane di quegli anni conoscevano il rituale mattutino della preparazione lampo per correre in ufficio, il veglione di capodanno e lo squallore delle situazioni, la partita dell'Italia con “spaghettone aglio olio e peperoncino, birrona gelata e rutto libero”.

Su Fantozzi era facile scaricare le ansie inconsce di tanti sia quelle più personali (quindi diffuse e dolorose che richiamano il senso di inadeguatezza e di sfortuna) sia quelle più legate a un contesto sociale di partenza, che per i borghesi appare incolmabile verso quella che viene chiamata “scalata per l'ascesa”.

Sarà forse per questo che se molti con Fantozzi si sbellicano dalle risate, molti non riescono proprio a ridere perché lo trovano deprimente.
Ha affrontato molti temi in salsa agrodolce, con avvertimenti e sentimenti del contrario.

Con lui si possono esorcizzare le paure familiari, lavorative, amicali, scaricando tutto con una risata e usare l'ironia (“com'è umano lei!”), ma dall'altra parte il sentimento del contrario dà una forte identificazione col personaggio, ragion per cui ci mettiamo a soffrire per le sue sventure come se ci riguardassero, senza avere la distanza necessaria per riderne.

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